Alimentazione in età pediatrica: più perplessità che certezze

Ci avevano detto di bere latte che fornisce calcio e ora ci dicono d’essere prudenti coi latticini poiché sono troppo grassi; ci avevano detto di mangiare carne che contiene ferro e ora ci dicono di mangiarne poca perché contiene troppo colesterolo. Proprio la diffusione del problema obesità nei Paesi “industrializzati” (un bambino su sette) ha attratto l’attenzione sul problema alimentazione in generale e spinto la ricerca a compiere sforzi che puntassero sulla definizione della sua eziopatogenesi imputabile, secondo un ormai comune accordo, a fattori genetici ed ambientali tra i quali particolarmente predomina l’alimentazione intesa sia in senso quanti che qualitativo. Il motivo della prevenzione non è solo di ordine estetico. Si è dimostrato infatti che una cattiva alimentazione, indipendentemente dall’incremento ponderale, è associata a morbilità già in età pediatrica ed è correlata a mortalità nelle età successive. È un dato acclarato che un bambino obeso ammala di più:
> perché gli elementi dell’immunità tessutale, causa la dilatazione dello spazio mesenchimale, raggiungono più lentamente il circolo ematico e da questo il focolaio infettivo
> perché le mucose infiammate a causa dell’acidosi iperproteica e dall’esistenza di una vasculite da immunocomplessi sono più permeabili ai patogeni delle vie aeree e gastrointestinali.

Da adulto sarà potenzialmente affetto da dislipidemia, ipertensione, arteriosclerosi, rischi cardiovascolari, respiratori, ortopedici, neurologici. Se esistono però prove dirette sull’efficacia della riduzione dei valori di colesterolemia e sulla diminuzione della mortalità per cardiovasculopatia nell’adulto, non ne esistono sul fatto che la drastica riduzione dei valori di lipidemia in età pediatrica possa essere esente da sequele carenziali sull’accrescimento. Inoltre, poiché i lipidi sono componenti essenziali della dieta, sia perché veicolano molta energia in un piccolo volume (elemento importante in una età di elevati fabbisogni), sia perché entrano nella struttura delle membrane cellulari e influenzano numerose reazioni organiche, i rischi legati ad una dieta ipolipidica nel bambino devono essere valutati attentamente non solo in termini di sviluppo staturale e composizione corporea, ma anche in termini di maturazione, risposta immune, sviluppo neuromotorio e livello di attività fisica.
Non è sufficiente, dunque, diminuire la quota calorica, deve essere invece ottimizzato il rapporto fra i nutrienti, ma secondo quali criteri può essere stabilito il “gold standard” alimentare? Volendo in questa sede soprassedere sui rischi emersi dai fatti di cronaca (mucca “pazza”, pollo, uova e pesce alla diossina, lattuga ai pesticidi, polenta agli Ogm, vino al metanolo, würstel al cervello di mucca Bse ….) è comunque difficile per una madre fare una spesa “ragionata”. Le regole di una corretta alimentazione cambiano di continuo da quando, agli inizi del novecento, negli anni che precedono e seguono il primo conflitto mondiale, viene presa coscienza del parallelismo “nutrizione-salute”, all’epoca allarmante dal punto di vista carenziale poiché la mancanza, la scarsità e la poca varietà degli alimenti determinavano uno stato di debilitazione organica. È del 1871 il “Trattato popolare dell’alimentazione” di Jakob Moleschott, professore di fisiologia a Roma e Torino, che puntualizza il fabbisogno alimentare minimo da fornire a tutta la popolazione onde eliminare gli stati nutrizionali inadeguati, predisponenti a malattie infettive devastanti come la tubercolosi e da carenza come la pellagra (niacina), lo scorbuto (vit. C), il beri beri (vit. B1), il rachitismo (vit. D). La scoperta che anche la scarsità di una piccola quantità di microalimenti indispensabili per alcune reazioni biochimiche organiche (che nel 1911 Kazmierz Funk chiama vitamine: amine della vita) dà origine a malattie, porta alla conclusione che per eliminare queste “sindromi da carenza” occorre una dieta bilanciata o l’integrazione con vitamine prodotte industrialmente. Col cambiare dei tempi e delle disponibilità economiche il “problema” alimentazione si è andato trasformando e, dalle sequele carenziali, divenute una via di mezzo tra una curiosità medica ed un fatto storico, si è cominciato a temere per quelle legate agli abusi e a cercare di “identificare quei fattori alimentari precoci associati ad un migliore accrescimento ed a minori indici di morbilità presente e possibilmente futura” (M. Giovannini).

Inizia a delinearsi il concetto di “dieta-prevenzione” e si presta più attenzione alla qualità che alla quantità dell’alimentazione anche se è presto perché si affermi l’idea di considerare il cibo come una sorta di medicina: “qualunque sostanza, naturale o di sintesi, introdotta nel nostro organismo a scopo alimentare e non, può essere responsabile di effetti nutrizionali, biologici, farmacologici, indipendentemente dallo scopo per il quale viene assunta, può modificare alcuni processi metabolici, così come le funzioni di alcuni organi e apparati, può alterare il metabolismo di alcuni farmaci” (F. Firenzuoli). Le vitamine e gli oligoelementi partecipano infatti alle diverse reazioni enzimatiche di degradazione o di sintesi, attraverso le quali gli idrati di carbonio, i lipidi, i protidi e tutti i principi nutritivi assorbiti dagli alimenti vengono trasformati per fornire energia indispensabile all’attività cellulare, per costruire eventualmente riserve energetiche e per apportare gli oligoelementi necessari al mantenimento delle strutture dell’organismo e alla crescita. Agendo come catalizzatori il loro bisogno quotidiano è relativamente modesto, a volte infinitesimale, ma indispensabile per le continue trasformazioni e per l’incessante rinnovo che condiziona la vita cellulare. Il loro deficit determina delle alterazioni funzionali dei cicli biologici con espressività cliniche carenziali subito compensate dall’integrazione della sostanza mancante, a meno che non si siano già stabilite lesioni troppo gravi o avanzate perché si abbia la restituito ad integrum (es: le lesioni cheratomalaciche conseguenti alla carenza di vit. A). Nel gennaio 1988 la rivista inglese “The Lancet” ha pubblicato un ottimo studio su novanta bambini inglesi tra i dodici e i tredici anni, intitolato “Gli effetti delle vitamine e dei complementi minerali sull’intelligenza di un gruppo di scolari”, ideato per esaminare la possibilità che la deficienza di tali elementi nella dieta potesse impedire il funzionamento ottimale della mente. I risultati dimostravano una stretta relazione tra la somministrazione di integratori alimentari e il Q.I. Ancora, una indagine condotta su 803 scuole pubbliche di New York intitolata “L’incidenza dei cibi a basso contenuto di additivi nella dieta con molto saccarosio sul rendimento scolastico”, con fini ben più ambiziosi giungeva allo sconcertante risultato di un aumento significativo del rendimento scolastico di tutti gli studenti arruolati sia se confrontato con gli anni precedenti l’inizio dello studio sia con quello ottenuto in media dagli studenti di tutta la Nazione. Ma, nonostante la maggior parte delle persone sia consapevole del-l’esistenza di un profondo legame tra la dieta e le prestazioni mentali e dell’importante legame che esiste tra alimentazione e salute, tuttavia è confusa dal flusso costante di informazioni contraddittorie di cui ci bombardano la stampa e la televisione. Non esistono risposte definitive nel campo dell’alimentazione. Il dottor Roger Williams, considerato da molti il padre della dietologia moderna, affrontò la questione dei fabbisogni specifici in un articolo divenuto famoso, intitolato “Individualità biochimiche”. Pur sapendo che i meccanismi biologici che sono alla base del funzionamento del-l’organismo sono gli stessi per tutti, egli postulò che ogni persona avesse in realtà necessità particolari con variazioni da dieci a cento volte per una determinata sostanza e, nella stessa persona, a seconda dello stress cui è sottoposta in determinati momenti. Il fabbisogno, nell’adulto come nel bambino, deve essere valutato in termini di energia e di nutrienti onde evitare il rischio, oggi diffuso, di essere sovralimentati ma denutriti.

Lo strumento su cui sono calcolati tali fabbisogni e su cui programmare uno schema alimentare adeguato alle diverse età è rappresentato dai LARN (Livelli Raccomandati di Energia e Nutrienti), ritenuti adeguati a coprire i bisogni nutrizionali di tutte le persone in buono stato di salute. Nel bambino sano è necessario fornire una dieta diversificata ma nutrizionalmente bilanciata. Bisogna che i genitori assistano il bambino, che sviluppa facilmente avversioni o fenomeni di iper-ipoalimentazione, nel selezionare cibi che siano adeguata fonte di vitamine e minerali e che forniscano quantità di proteine e calorie tali da colmare i fabbisogni nutrizionali. Andranno soddisfatti i seguenti fabbisogni. > Il fabbisogno energetico è costituito dalla somma del metabolismo basale, termogenesi, spesa energetica per l’attività fisica e quota energetica necessaria all’accrescimento. Nei primi tre anni il fabbisogno calorico è di 102 Kcal/Kg di peso per scendere a 90 dai 4 ai 6 anni e a 70 dai 7 ai 10 anni. In genere il riflesso dell’appetito nei bambini di peso normale è in grado di assicurare il loro fabbisogno energetico.
> Il fabbisogno proteico è variato enormemente nel corso degli anni. Negli anni sessanta si raccomandava una quota di proteine animali “nobili” per l’adulto sano non inferiore a 1,2 g/Kg di peso corporeo ideale/die (che venivano abbondantemente superate) contro 0,6 – 0,8 g/Kg/die attuali (che lasciano interdetti i cultori della Chianina e le mamme ansiose). Nel bimbo con età inferiore a 6 mesi si fa riferimento al contenuto proteico del latte materno (1,5 g) mentre si passa a 1,2 g/Kg da 1 a 3 anni, a 1,1g/Kg da 4 a 6 anni, a 1,0 g/Kg da 7 a 10 anni.

Indicativamente, in una corretta ripartizione calorica dei nutrienti solo il 10% dovrebbe essere di origine proteica con un rapporto 1:1 tra proteine di origine animale (carne, pesce, uova, latte e derivati) e vegetale (legumi, cereali…). Attualmente la dieta del bambino tende a fornire un apporto eccessivo di proteine di origine animale che provoca l’aumento di processi di putrefazione a livello intestinale con alterazione della flora saprofita, fattore questo che è stato recentemente collegato al rischio dello sviluppo di malattie autoimmuni e degenerative. Purtroppo l’attuale medicina tende più facilmente ad integrare pro e prebiotici per riequilibrare l’avvenuta disbiosi intestinale che non a prevenire che l’alterazione si verifichi correggendo quegli squilibri alimentari che ne sono alla base e che sono presenti già nei primi mesi di vita quando vengono segnalati dalle non sempre innocenti “coliche gassose” (che se dolgono sottendono una flogosi!) o dalla non a caso denominata “crosta lattea” (dermatite allergica del neonato che rivendica la sua identità umana e non bovina…). Basti considerare d’altronde la composizione del latte materno (circa 1,5% di proteine che consentono al neonato di raddoppiare il proprio peso corporeo nei primi 6-8 mesi di vita) per verificare de vivo che non sono necessari ampi quantitativi di proteine per garantire lo sviluppo di nuove cellule nell’organismo umano. > Il fabbisogno lipidico nei primi due anni ricalca quello del latte materno (45-50% delle calorie totali) e dopo il secondo anno non dovrebbe eccedere il 30% delle calorie totali con progressiva riduzione al 20% di cui meno del 10% in acidi grassi saturi. I grassi saturi provengono soprattutto dalla carne, dai formaggi, dalle uova. Ancor peggio sono i grassi idrogenati, quelli a cui l’industria ha aggiunto una molecola di idrogeno per prolungarne la durata (presenti nei cibi del fast food). Si consiglia inoltre che 1%–2% delle calorie totali derivi da acido linoleico per assicurare un adeguato apporto di acidi grassi essenziali omega 3 che riducono l’incidenza di disturbi aterosclerotici e dislipidemici e favoriscono lo sviluppo del sistema neurologico (e intellettivo) nel bambino. Gli acidi grassi n-3 di origine animale sono costituiti soprattutto da EPA (acido eicosapentanoico) e DHA (acido docosaexaenoico), contenuti nell’olio di pesce, mentre quelli di origine vegetale sono riconducibili all’acido alfa-linolenico, presente soprattutto nell’olio di soja, nel-l’olio di canola, nell’olio di semi di lino. Mentre di DHA ed EPA sono sufficienti 3 – 10 g/die, di acido linolenico ne occorrono 14 – 60 g/die. > Il fabbisogno glucidico è pari al 55-65% dell’intake calorico totale (50 – 100 g/die) poiché una dieta povera di zuccheri porta alla formazione di corpi chetonici, a un eccessivo catabolismo di proteine tessutali e alla perdita di cationi. E’ in genere più basso nei primi mesi di vita quando è richiesto un maggior introito lipidico. Nei bambini è importante la scelta del tipo di carboidrati. Infatti i cereali raffinati vengono assorbiti rapidamente: i loro zuccheri vanno in circolo e il pancreas risponde producendo insulina che favorisce l’ingresso di glucosio nelle cellule e nel fegato. Per questo 2 o 3 ore dopo un pasto di carboidrati raffinati in circolo non c’è più zucchero e si ripresentano i morsi della fame: il bimbo chiede altro spuntino di carboidrati e il ciclo ricomincia col risultato di un incremento ponderale. Con i carboidrati integrali, invece, gli zuccheri entrano in circolo lentamente ed hanno dunque un basso indice glicemico, vengono assorbiti meno e facilitano il transito intestinale. > Fibre, liquidi, vitamine, minerali: una dieta bilanciata solitamente fornisce livelli soddisfacenti di tali nutrienti. In generale si può affermare che frutta fresca, verdure, cereali integrali, legumi, sono gli ingredienti principali di una dieta salutare e che le ricerche hanno dimostrato che troppe proteine e troppi grassi contribuiscono all’instaurarsi delle malattie cronico-degenerative e all’osteoporosi. La nocività degli alimenti può essere valutata, oltre che per gli effetti sull’uomo, anche per quelli sull’ambiente. David Pimentel, docente di ecologia alla Cornell University di New York, ha proposto di tassare i cibi ecologicamente più dannosi, per diminuirne il consumo. In testa ai cibi più costosi per l’ambiente ci sono prodotti come carne di maiale, bovina, formaggi e uova. I più ecologici (da tassare meno) sono i vegetali: legumi, grano, alghe, frutta. Ci vogliono 100 mila litri di acqua per produrre 1 Kg di carne di bue. La stessa quantità basta per produrre 100 Kg di grano. La produzione intensiva usa risorse naturali in grande quantità e produce molti scarti che divengono inquinanti.

“Un fatto storicamente accertato è che l’erosione del suolo, l’esaurimento delle falde acquifere e la deforestazione – tutti fattori che ora minacciano le fondamenta del nostro sistema alimentare – in gran parte non sono altro che il risultato di questa forma di produzione di cibo particolarmente distruttiva” (Keith Akers, 1989). È la rivalsa dei vegetariani, con tutti i dubbi e le ragioni che l’accompagnano. In effetti una dieta vegetariana, se ben strutturata secondo la tecnica della variabilità, può garantire nell’adulto la presenza bilanciata di tutti i principi alimentari e vantare numerosi pregi. Elenchiamo gli aspetti più caratteristici della dieta vegetariana.
> Idratante, disintossicante e depurativa.
> Ricca di fibre che stimolano la peristalsi intestinale favorendone la regolarizzazione.
> Induce rilassamento e abbassa l’aggressività.
> Tende a spostare l’equilibrio acido base (pH) verso l’alcalinità prevenendo così i danni di un’acidificazione sulla decalcificazione ossea, sulla carie dentale, l’anemia, la calcolosi renale e colecistica, i disturbi infiammatori digestivi, respirati e cutanei.
> Favorisce il recupero dell’efficienza fisica nello sportivo poiché bilancia gli effetti dell’attività motoria, tende a far virare il pH del sangue verso l’acidità, e risulta particolarmente ricca di glucidi, potassio e magnesio, utili per il metabolismo energetico muscolare.
> Riduce i rischi di patologie cardiovascolari per la minor presenza di grassi saturi e colesterolo, e di cancro dell’apparato digerente sia grazie agli antiossidanti, ampiamente presenti nei vegetali, sia alla mancanza di processi putrefattivi dovuti alla degradazione delle proteine animali nel lungo percorso (6-7 metri) dell’intestino da erbivoro quale è quello dell’uomo.
> Sembra, da recenti studi, che i vegetariani siano più intelligenti. Fatto che confermano la mente matematica di Pitagora e l’eclettismo di Leonardo, entrambi addirittura vegani (vegetariani estremi che escludono anche prodotti lattiero-caseari), ai quali certo non mancava l’acume. Il vegetarianesimo è un termine che abbraccia una varietà di pratiche dietetiche (vegani, fruttariani…).
L’American Dietetic Assotiation riconosce che le diete vegetariane ben programmate sono conformi con un buon equilibrio nutrizionale nell’adulto: la ricchezza di fibre dei cibi integrali e dei vegetali contribuisce infatti a proteggere l’organismo da numerose malattie e, se non si abusa di latticini ricchi di grassi, si riduce il rischio di sviluppare coronaropatie, obesità, ipertensione allergie, diabete… Nel marzo del 1998 Giuseppe Rotilio, allora presidente dell’Istituto Nazionale di Nutrizione, a proposito di dieta vegetariana così si esprimeva: “Le diete vegetariane sono assolutamente complete, sia per quanto riguarda aminoacidi essenziali (assicurati dalla presenza di legumi e cereali, del pesce, dei formaggi e delle uova), sia per minerali e vitamine”. Ma neonati, bambini e adolescenti che praticano le diete vegetariane più restrittive sono ad alto rischio per lo sviluppo di carenze nutrizionali in considerazione dei loro rapidi ritmi di crescita e il fabbisogno di calorie e di nutrienti necessari a supportare la crescita. Gli indici più importanti di una nutrizione adeguata sono proprio una crescita e uno sviluppo normali. Bambini che osservano diete contenenti proteine animali (latte, uovo o solo pesce) cresceranno in modo normale.
È stata dimostrata nei bambini in tenera età che seguono diete macrobiotiche, una carenza, riscontrabile sul piano fisico e biochimico, di svariati nutrienti tra i quali ferro, vitamine B12 e D, calcio, riboflavina. Sono stati riscontrati inoltre ritardi nella crescita ed una maggiore incidenza di patologie quali il rachitismo, anemia e kwashiorkor o malnutrizione della proteina. I neonati di madri vegane (vegetariane a regime ristretto) sono predisposti ad ipovitaminosi D e B12 che dovrebbero integrare nella dieta. Nei bambini che non assumono neppure latte di soja si dovrebbero usare cereali con poche fibre poiché queste tendono a sequestrare il calcio nell’intestino. In conclusione una dieta vegetariana in un bambino in crescita non può essere improvvisata ma concordata con un dietologo esperto che determina le preferenze alimentari (così difficili e variabili in un bambino) e stabilisce una dieta corretta dal punto di vista nutrizionale.
di Tiziana di Gianpietro