La nascita del gusto, le neofobie e l'educazione alimentare

Il gusto viene definito come la funzione sensoriale specifica per avvertire il sapore dei cibi; è dovuto in parte, alle cellule nervose presenti in bocca (papille gustative) capaci di riconoscere i sapori, e ai recettori termici e tattili che contribuiscono a darci altre informazioni sul cibo (temperatura, consistenza, volume e forma). Il colore, la forma e l’aspetto di un alimento possono influenzare la nostra percezione gustativa, come pure il rumore, mentre la complessa sensazione definita fragranza (flavour) non può originarsi senza l’odorato. Secondo alcuni neurofisiologi la percezione gustativa è dovuta addirittura per il 95% ai recettori presenti nella cavità nasale e solo per il 5% alle papille gustative. In effetti le papille gustative situate sulla lingua percepiscono solo i quattro sapori fondamentali: dolce, amaro, salato, acido. Gli stimoli gustativi una volta raggiunto il cervello si mescolano ad altri stimoli e, grazie alla natura polisensoriale del gusto, vengono avvertite un’ampia gamma di sfumature.

Tra i cinque sensi il gusto è l’unico che si può godere in compagnia ed ha carattere sociale:
> mangiare in famiglia
> partecipare ai banchetti
> a tavola si parla di affari e di amore
> a tavola si educano i figli.

Il gusto, inteso come il complesso delle preferenze o/e delle avversioni alimentari di un individuo, è sempre colorato di emozioni; è noto come i ricordi infantili del cibo siano emotivamente caricati: consolazione, nostalgia, piacere, ma anche frustrazione, ribellione, rabbia. Insomma, le scelte alimentari sono sempre associate agli stati affettivi, che si esprimono nelle coppie oppositive: piacere/dispiacere, ingestione/rigetto, accettazione/rifiuto.
L’atto del nutrirsi e dell’alimentarsi non è la semplice soddisfazione di un bisogno biologico. Codificato, elaborato culturalmente, caricato di senso e di valori simbolici, è da subito soprattutto un atto sociale e di comunicazione, un atto relazionale. Sin dalla prima infanzia, con la sua doppia connotazione d’informazione e di emozione, s’inscrive nel contesto relazionale e sociale dell’individuo. In altre parole, il cibo rende persone, sia sotto il profilo corporeo e materiale, sia sotto quello morale e spirituale. Insomma, il cibo e l’alimentazione sono fondamentali per la costruzione della soggettività e del senso del sé. Da questo, alcuni studiosi ritengono che lo studio dell’evoluzione gustativa debba essere legato allo studio dello sviluppo mentale del bambino e a quello della natura e delle modalità di reattività emozionale nonché delle condizioni di vita e di educazione (familiare e socioambientale). Nel nutrire il bambino, la mamma o chi per lei, gli insegna a prendere piacere dal cibo, prendere piacere dall’alimentarsi. Il cibo-buono non solo soddisfa con piacere l’appetito, ma rinforza nel bambino l’immagine della mamma-buona: il benessere organico diventa un benessere relazionale. Benessere che è alla base di quel senso di fiducia sul quale si fonda la personalità e l’identità sociale. È dal rapporto che il bambino intrattiene con la mamma (o con chi svolge il ruolo di dispensatore di cibo) che egli impara il piacere o il dispiacere di stare al mondo e l’esercizio della propria affettività, dei sentimenti, delle emozioni, della sessualità. Dunque, il cibo non è soltanto buono da mangiare, ma anche da pensare (Fischler afferma che l’uomo differisce dagli altri animali particolarmente in questo: non si accontenta di consumare i cibi, li pensa), da immaginare, da fantasticare, è “buono” per avere relazioni sociali e per svilupparle. Esiste un legame stretto fra piacere sessuale e piacere nell’alimentarsi, e le ragioni risiedono nelle nostre strutture cerebrali. Come ha ben affermato Fischler, l’uomo, in quanto onnivoro ha un programma assolutamente aperto per quanto riguarda le scelte alimentari e dunque la varietà dei suoi gusti e comportamenti alimentari. Questa programmazione aperta rappresenta un grande valore di sopravvivenza per la nostra specie rispetto ad altre che si nutrono di una sola varietà di cibo. Ciò nonostante, nella nascita dei gusti alimentari di un individuo intervengono almeno quattro tipi di fattori: > biologici > psicologici (inerenti all’esperienza individuale) > culturali > sociali (ovvero i meccanismi di interazione fra gli individui). Fra i mecanismi di interazione distinguiamo due modi di trasmissione: intergenerazionale e intragenerazionale. Da una generazione all’altra i giovani vengono messi nelle stesse situazioni di scelta per quanto riguarda i cibi e le preparazioni, e così, portati a fare identiche esperienze, finiscono per operare scelte identiche. Tuttavia, la capacità di poter orientare e controllare i gusti alimentari dei bambini da parte dei genitori è più debole di quanto si possa credere.

Il contesto socio-culturale esercita sul bambino una pressione indiretta che ha effetti notevoli sulla formazione dei suoi gusti alimentari. Nell’esperienza che un bambino si costruisce di una cultura alimentare, quello che non gli viene dato conta almeno quanto quello che gli viene dato (e del contesto in cui gli viene dato).
Gli studi condotti in Francia da Matty Chiva su quaranta bambini che sono stati seguiti sin dalla nascita, hanno dimostrato che già dai 6 mesi di vita, attraverso quello che gli studiosi (Steiner, 1973) hanno chiamato riflesso gusto-facciale conseguente agli stimoli gustativi dei cibi, il bambino comunica le proprie preferenze. I bambini a cui viene fatta succhiare una soluzione di acqua e zucchero reagiscono con una smorfia di piacere che la madre interpreta come un sorriso. Viceversa soluzioni acide o amare causano smorfie di repulsione: i neonati serrano le labbra, piegano il naso, aggrottano le sopracciglia. Già a iniziare dai 10-12 mesi d’età, è possibile distinguere 3 sottogruppi in funzione della finezza percettiva (una funzione o un attitudine assolutamente individuale): gli ipergustativi che mostrano una enorme sensibilità percettiva, il gruppo medio o normale e il gruppo degli ipogustativi e degli agustativi. Gli ipergustativi sono soggetti fortemente emotivi e presentano più facilmente e più spesso degli altri rifiuti o scelte elettive (creano più problemi), dovute forse al fatto che percepiscono più sottilmente i gusti. Gli altri (ipo e agustativi) non presentano rifiuti o preferenze elettive, accettano tutto e mangiano in funzione della loro sensazione di fame (con grande gioia dei genitori!). Più avanti, fra i 2 e i 4 anni, anche se l’influenza della interazione con la madre rimane fondamentale per l’accettazione del cibo, è stato osservato che il cibo può venire accettato anche se offerto da un adulto, al patto che anche questo mangi l’alimento in questione (esperienza dei gorilla di montagna). Questo è stato interpretato dagli studiosi come una forma di apprendimento per osservazione o imitazione. Ed è proprio questo tipo di trasmissione che sembra avere un ruolo decisivo nella formazione ed evoluzione dei gusti alimentari del bambino. Tuttavia la trasmissione avviene più efficacemente, funziona meglio, sul piano intragenerazionale che non intergenerazionale (fra adulto e bambino). Stando agli psicologi, fra i 3 e i 5 anni i bambini hanno già interiorizzato quali siano i cibi appropriati per la colazione e per il pranzo. E ciò che è giudicato appropriato risulta poi anche gradito (buono da pensare = buono da mangiare). Queste strutture culturali dell’alimentazione però non si trasmettono in maniera esplicita. A realizzarle non è l’insegnamento diretto dei genitori, ma piuttosto l’esperienza ripetuta dei figli, esperienza anch’essa indotta dal fatto che le strutture sono conscia-mente o inconsciamente applicate dai genitori. L’esperienza precoce non è importante per le scelte alimentari. Dati sempre più concordanti mostrano invece come il fattore più importante nell’allargamento e nella socializzazione dei gusti alimentari del bambino sia l’influenza diretta dei suoi simili. In altre parole, i cambiamenti di gusto durevoli sono quelli indotti dalla suggestione sociale dei nostri simili. I bambini accettano più volentieri alimenti nuovi se li vedono consumare da adulti o da altri bambini. Se per esempio in una mensa scolastica si fa sedere per molti giorni un bambino che non mangia la verdura a un tavolo con un gruppo di compagni che invece l’apprezzano, alla fine il bambino accetta l’alimento rifiutato e arriva addirittura a sviluppare nei suoi confronti una preferenza durevole. Soltanto fra i 6 e i 12 anni compaiono le avversioni alimentari e le neofobie (tendenza a rifiutare i cibi nuovi). E molto spesso i ragazzi diventano agenti d’innovazione nelle scelte alimentari degli adulti. Stando alle ricerche fatte in Francia su un gruppo di 321 soggetti divisi per fasce d’età in tre gruppi (4-7 anni; 11-14; 1718), i gusti generalmente sembrano essere: > avversione generalizzata per le verdure (specie se verdi); > predilezione per il croccante (patatine fritte, bacon); > tendenza a rifiutare gli alimenti mescolati; > poco gradimento per pelle, latte, cervello, frattaglie, formaggi saporiti. L’uso abbastanza diffuso di accoppiare a una clausola di tipo alimentare un premio o l’autorizzazione a dedicarsi ad un’attività piacevole, si è rivelato controproducente in 9 bambini su 10; la preferenza verso quell’alimento da mangiare è diminuita o è rimasta per lo più invariata. L’esperienza induce una preferenza: il semplice fatto di aver già incontrato un alimento sembra accrescere le probabilità che venga gradito, e comunque accettato. Nel bambino, la familiarità di un alimento (il fatto che già lo conosca) tende ad aumentarne l’accettabilità. Nonostante la plasticità e la variabilità umana in fatto di preferenze alimentari, la neofobia è una caratteristica importante del comportamento alimentare degli onnivori. Tuttavia, lungi dal costituire una turba dello sviluppo, il comportamento neofobico sembra corrispondere, a una fase normale dello sviluppo stesso. Il bambino impara non a diversificare la propria alimentazione, bensi a strutturarla, ad operare egli stesso delle scelte.

Secondo alcuni antropologi la neofobia esprime un conflitto ancestrale caratteristico di tutti gli onnivori: da un lato l’esigenza di sperimentare e consumare un’ampia gamma per soddisfare le necessità biologiche e dall’altro la necessità di salvaguardarsi dal rischio di avvelenamenti insito nella sperimentazione alimentare. Il pasto è un momento importante per la famiglia (TV, litigi, argomenti fastidiosi). Il piacere nell’alimentarsi si trasmette nei primi due anni attraverso una buona relazione affettiva con la madre. Non valgono le imposizioni ma come viene visssuto in famiglia il momento del pasto che deve essere un momento di convivialità.
> Cercare di consumare i pasti in famiglia a intervalli regolari in un clima sereno, evitando critiche e discussioni a tavola.
> Farsi aiutare dal bambino ad apparecchiare la tavola o a preparare il cibo.
> Avere cura che il bambino sia seduto correttamente a tavola e non assuma posizioni anomale.
> Evitare che al momento dei pasti il bambino sia troppo affamato o troppo stanco.
> Evitare gli spuntini.
> Servire un alimento nuovo insieme ad altri conosciuti, senza mostrare sorprese di fronte a un eventuale rifiuto.
> Offrire a ogni pasto almeno un alimento gradito al bambino ma non accontentare tutti i suoi gusti.
> Non obbligarlo a mangiare per forza.
> Lasciare che sia il bambino a dire quando è sazio; la quantità di cibo necessaria varia da bambino a bambino e da giorno a giorno.
> Limitare i comportamenti scorretti, come lo sputare il cibo o il giocare.

1) Rifiuta la carne:
> Offrire carne tenera o pollame in umido e sottoforma di bocconcini.
> Includere la carne in un polpettone, nella salsa, nella pizza.
> Unirla a legumi, uova, formaggio.

2) Beve poco latte:
> Offrire formaggio e yogurt, compreso il formaggio usato nelle diverse preparazioni (pasta, pizza, besciamella, ecc.).
> Utilizzare il latte per cuocere i cereali.
> Preparare budini e creme a base di latte.

3) Beve troppo latte:
> Fargli bere acqua fra i pasti.
> Limitare il latte solo a colazione e merenda ed evitarlo durante i pasti.
> Se usa ancora il biberon, introdurre l’uso del bicchiere.

4) Rifiuta frutta e verdura:
> Se rifiuta la verdura, offrire più frutta e viceversa.
> Preparare verdura tenera ma non troppo cotta.
> Cuocere la verdura a vapore (o darla cruda) e permettere al bambino di mangiarla con le mani.
> Dare yogurt con frutta frullata.

5) Mangia troppi dolci:
> Limitare l’acquisto di dolci e preferire quelli fatti in casa, con ingredienti naturali e quantità ridotte di grassi e zuccheri.
> Evitare di usarli come esca o ricompensa.
> Servirli a colazione o a merenda e non durante i pasti.
> Usare zucchero di canna e yogurt nella preparazione dei dolci.
> Richiedere la solidarietà di quanti assistono il bambino durante la giornata per ridurre il consumo di dolci.

La fantasia può aiutare a trasmettere maggiore entusiasmo al bambino nei momenti dedicati all’alimentazione. Poche idee possono contribuire a migliorare il rapporto con il cibo e con la tavola:
> Piacevolezza e allegria
> Racconti legati ai menù
> Apparecchiatura della tavola
> Trasmissione dell’amore per la tavola
> Non preoccuparsi dei rifiuti
> Evitare le ansie.

Preparare qualcosa “da grandi” crea appeal e coinvolge maggiormente il bambino nella vita di comunità, ad esempio un Bellini Baby:
> 3/4 succo pesca
> limone qualche gocccia
> 1/4 acqua frizzante.

Barzanò C., Marconi L. et al. Alla scoperta del gusto, Regione Lombardia (Settore Agricoltura Servizio Alimentazione) 1997.

di Giovanni Vitali Rosati e Massimo Generoso