Il lato buono della medaglia
Storia
I benefici dell’attività fisica sono oggi ben noti. Tuttavia, per anni si è dibattuto sugli effetti dell’attività fisica, in particolare quella intesa, a livello cardiaco Lo scetticismo iniziò a scemare quando nel 1953 Jeremiah Noah “Jerry” Morris (1910-2009) e i suoi colleghi per primi ipotizzarono che gli uomini di mezza età fisicamente attivi siano meno soggetti a malattia coronarica. Morris e colleghi infatti studiarono sia gli impiegati dei famosi autobus rossi a due piani di Londra sia gli impiegati della Royal Mail. Osservarono così che i controllori dei biglietti che andavano su e giù per le scale degli autobus macinando dai 500 ai 750 gradini al giorno, avevano una prevalenza di malattia coronarica del 50% in meno rispetto ai loro colleghi autisti, i quali invece stavano seduti per il 90% del tempo lavorativo. Inoltre, se i bigliettai sviluppavano una malattia coronarica, questa si presentava in età più avanzata e in maniera diversa (innanzitutto con la classica angina anziché l’infarto) ed era meno probabile che fosse fatale: la mortalità a tre giorni dall’infarto era del 30% nei bigliettai, del 50% negli autisti. Risultati simili Morris e colleghi li ottennero dallo studio degli impiegati alle poste: coloro che consegnavano la posta in biciletta o a piedi erano soggetti a meno eventi cardiaci rispetto a coloro che erano impiegati negli uffici postali e, in caso di infarto, la mortalità a tre giorni era significativamente minore.
Quanto devo camminare per migliorare il mio cuore?
Basta poco, bastano anche solo 30 minuti a settimana. Ma più ti muovi meglio è.
Nel 2002, Mihaela Tansescu e colleghi studiarono più di 44000 uomini e li seguirono per due anni. Rispetto a coloro che non svolgevano attività fisica, osservarono una riduzione del rischio di eventi cardiaci del 42% in coloro che correvano per un’ora o più alla settimana, del 25% tra coloro che facevano sollevamento pesi per 30 minuti o più alla settimana, del 18% tra coloro che facevano canottaggio per un’ora o più alla settimana. In media, l’intensità dell’esercizio fisico era associata a una riduzione di malattia ischemica cardiaca indipendentemente dal volume totale di attività svolta. Ad esempio, tra coloro che camminavano 30 minuti a settimana, i soggetti che camminavano a passo veloce riducevano del 42% il loro rischio di ischemia miocardica rispetto a chi non camminava, tale rischio si riduceva del 50% tra coloro che correvano.
Al fine di ottenere i massimi benefici, bisognerebbe fare almeno 150 minuti di attività fisica moderata alla settimana.
Come posso misurare la mia attività fisica?
I MET (Metabolic Equivalent of Task) sono l’unita di misura più utilizzato per misurare il consumo d’energia utilizzata durante l’attività fisica. 1 MET equivale al consumo di 1 caloria per chilogrammo di peso (o kilocaloria) per ora e corrisponde al consumo di 0,21 litri di ossigeno per chilogrammo per ora da parte dell’organismo. Quando, ad esempio, si sta seduti davanti al computer, si consumano 1,5 MET, quando si passa l’aspirapolvere si consumano all’incirca 3 MET, ma se si corre a una velocità di circa 9 km all’ora se ne consumano 10.
È stato dimostrato che per ogni MET di attività svolta, la mortalità si riduce del 13%. Ovviamente gli sportivi consumano molti più MET di quelli elencati negli esempi.
L’importante è non stare seduti!
È stato dimostrato che l’inattività fisica è uno dei pochi fattori di rischio di complicanze dell’infarto che si possono modificare. Uno studio italiano che ha valutato le differenze tra coloro che avevano un infarto complicato da arresto cardiaco e coloro che invece non avevano tale complicanza ha individuato cinque fattori di rischio principali: l’ipotensione (la bassa pressione arteriosa), l’ipopotassemia (bassi valori di potassio nel sangue, il potassio è un elettrolita presente nel nostro organismo che si può ridurre in determinate situazioni, come ad esempio il vomito o la sudorazione profusa prolungata), la localizzazione anteriore dell’infarto (ovvero se la zona colpita dall’ischemia è la porzione anteriore del cuore), la storia familiare di malattia ischemica miocardica e l’inattività fisica. In altre parole, per prevenire l’occorrenza di un arresto cardiaco durante un infarto, bisogna svolgere attività fisica e stare attenti a mantenere buoni livelli di potassio effettuando una corretta ed equilibrata dieta e prendendo degli integratori in caso di necessità.
L’attività fisica fa bene a tutto l’organismo
Tutto ciò è dovuto alla capacità dell’attività fisica di attuare cambiamenti a diversi livelli e sistemi del nostro organismo. È infatti in grado di modificare il nostro metabolismo e la nostra composizione corporea, rimodellare e rimodulare il nostro sistema cardiovascolare, immunitario, infiammatorio e neuropsicologico portando a una riduzione di tutti questi fattori di rischio che predispongono a malattie, in particolare a malattie cardiovascolari. I benefici dell’attività sportiva sono di tale entità che negli ultimi anni si è iniziato a parlare di prescrizione dell’esercizio fisico e a paragonarlo a una vera e propria terapia. C’è chi ha poi paragonato all’elisir di lunga vita l’esercizio fisico abbinato a una dieta corretta ed equilibrata.
La forte correlazione tra l’attività fisica e le cosiddette malattie non trasmissibili, responsabili del 63% delle morti globali, è stata anche sottolineata durante la sessantaseiesima Assemblea Mondiale della Salute (World Health Assembly) promossa dalla OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), la quale ha anche lanciato un piano globale sull’attività fisica chiamato “more active people for a healthier world” (persone più attive per un mondo più sano), che dovrebbe portare a una riduzione dell’inattività fisica del 10% entro il 2025 e del 15% entro il 2030.
Il lato brutto della medaglia
Arresto cardiaco e morte improvvisa tra sportivi
L’attività sportiva, tuttavia, talvolta mostra il peggio di sé e può innescare eventi cardiaci fatali. Pertanto, atleti che hanno una sottostante malattia/anormalità cardiovascolare quiescente sono ad aumentato rischio di morte cardiaca improvvisa. I primi report su casi di morte improvvisa tra gli sportivi risalgono già all’inizio del Novecento ma i primi studi che hanno cercato di quantificare il fenomeno sono stati pubblicati alla fine degli anni Settanta. Le evidenze scientifiche si sono andate accumulando e all’inizio degli anni Duemila un gruppo italiano ha dimostrato come gli atleti siano a più elevato rischio di morte cardiaca improvvisa rispetto ai non atleti, confermando che l’attività sportiva può trasformarsi da elisir di lunga vita in acceleratore di eventi potenzialmente fatali. Questi eventi sono abbastanza rari ma ovviamente tragici, ancora di più se si pensa che colpiscono soggetti considerati tra i più sani. Il 90% di questi eventi occorre durante o appena dopo l’esercizio fisico e il 90% degli atleti sono maschi e solo il 20% dei casi non è di natura cardiaca. L’incidenza della morte cardiaca improvvisa varia a seconda delle fasce di età considerate e delle definizioni utilizzate e va da 1:4000 a 1:200000 nei giovani atleti di età inferiore o uguale a trentacinque anni.
Perché lo sportivo ha arresti cardiaci in campo?
Diversi studi hanno cercato di spiegare le cause di morte cardiaca improvvisa tra gli sportivi. La causa è generalmente una malattia del cuore che non si è ancora manifestata del tutto e su cui l’attività sportiva funge da attivatore di manifestazioni aritmiche, che talvolta sono fatali. Uno studio autoptico condotto nel nord-est d’Italia ha dimostrato che la malattia sottostante più frequente è una malattia cardiaca genetica, la cardiomiopatia aritmogena (22% dei casi), seguita dalla malattia ischemica coronarica (18%). Un gruppo americano invece ha trovato che la causa principale è un’altra malattia cardiaca ereditaria, la cardiomiopatia ipertrofica, responsabile del 36% dei casi. Lo stesso gruppo dieci anni dopo ha dimostrato che nel 25% dei casi di morte cardiaca improvvisa la causa resta indeterminata, essendo il cuore strutturalmente sano al momento dell'autopsia. Tale percentuale sale al 43% in uno studio pubblicato un anno dopo da un gruppo inglese. Studi molecolari autoptici su casi di morte cardiaca improvvisa aritmica (che equivalgono ai casi di morte cardiaca improvvisa inspiegata in quanto “aritmica” vuol dire che il cuore è strutturalmente sano) hanno trovato che fino al 30% dei casi la morte è dovuta ad un gruppo di malattie cardiache ereditarie, le canalopatie. La percentuale di casi di morte cardiaca improvvisa dovuta a malattia cardiaca ereditaria arriva fino al 55% se si effettua anche lo screening cardiologico dei familiari dei soggetti deceduti, in quanto aumenta anche la percentuale di un altro gruppo di malattie cardiache ereditarie, le cardiomiopatie.
Cosa sono le malattie cardiache ereditarie?
Le malattie cardiache ereditarie sono delle patologie cardiache causate da un difetto genetico, ovvero da un’alterazione presente a livello del DNA, che nella maggior parte dei casi viene ereditato da uno dei due genitori, ma che talvolta può presentarsi per la prima volta con il soggetto affetto. Le malattie cardiache ereditarie contengono al proprio interno diversi gruppi di malattie, i principali sono le canalopatie e le cardiomiopatie. Le canalopatie sono malattie causate da un difetto genetico in grado di alterare il sistema elettrico del cuore, il quale si presenta strutturalmente sano. Nelle cardiomiopatie, invece, il difetto genetico causa un’alterazione a livello della struttura della muscolatura cardiaca. Generalmente, nelle fasi iniziali della malattia, tale alterazione tuttavia non è individuabile nemmeno all’esame istopatologico. In tali fasi, la manifestazione più frequente della malattia è la morte cardiaca improvvisa e l’esame autoptico può risultare negativo. L’alterazione genetica può rimanere silente oppure progressivamente manifestarsi. Alcune di queste patologie cardiache ereditarie talvolta, ma non sempre, possono essere visibili all’elettrocardiogramma di base. Ciò varia di molto a seconda della patologia, del difetto genetico, dello stadio della malattia e della singola persona: anche all’interno della stessa famiglia tra coloro che hanno lo stesso difetto genetico, alcuni soggetti possono non avere alcuna manifestazione di malattia, neanche elettrocardiografica, mentre altri possono mostrarsi palesemente affetti.
Il cuore d’atleta
Cosa vuol dire “cuore d’atleta”?
Il cuore dello sportivo tende a rispondere alle aumentate esigenze del corpo derivanti dall’attività fisica, soprattutto se intensa, alterando progressivamente le proprie caratteristiche strutturali. La stessa attività fisica, dall’altro lato, è in grado di indurre delle alterazioni a livello di vari sistemi del corpo che possono a loro volta favorire e/o causare alterazioni a livello cardiaco. Il risultato di tutti questi fisiologici adattamenti cardiovascolari all’attività sportiva prende il nome di “cuore d’atleta”.
L’adattamento cardiaco all’attività sportiva dipende molto da tipo, durata e intensità dell’attività sportiva, ma anche da età, sesso e origine dello sportivo. Lo sportivo, quindi, può presentare delle alterazioni del proprio elettrocardiogramma di base o della forma del proprio cuore e talora anche della funzione cardiaca visibile con un ecocardiogramma che tuttavia sono normali in considerazione dell’attività fisica svolta.
Come cambia il cuore dello sportivo?
L’attività isotonica, come ad esempio il ciclismo, comporta generalmente un aumento di volume e una dilatazione del cuore. L’attività isometrica, come ad esempio il sollevamento pesi, comporta invece generalmente un aumento di pressione all’interno del cuore che induce un aumento dello spessore delle pareti muscolari cardiache. Queste alterazioni sono fisiologiche, dovute all’attività sportiva, e nella maggior parte dei casi regrediscono del tutto o parzialmente con la sospensione dell’attività fisica.
Quando bisogna preoccuparsi per queste alterazioni?
Queste alterazioni fisiologiche comportano una serie di cambiamenti a livello elettrico cardiaco, ma anche strutturale e funzionale che però si sovrappongono molto con le alterazioni patologiche dovute alle malattie cardiache ereditarie. Esiste quindi una cosiddetta “grey-zone”, area grigia, in cui distinguere tra il buono e il cattivo, tra ciò che rappresenta un cambiamento fisiologico e ciò che invece può rappresentare una manifestazione iniziale di malattia, è estremamente difficile e talvolta non possibile in maniera definitiva.
Perché bisogna fare il certificato medico sportivo?
Lo screening cardiovascolare per l’idoneità sportiva e del cardiologo dello sport è importante proprio per la prevenzione della morte cardiaca improvvisa in campo, in quanto permette spesso di individuare precocemente delle alterazioni sospette per malattia.
Lo screening cardiovascolare
Qual è lo screening migliore per prevenire la morte improvvisa?
Quale sia la migliore strategia di screening è da anni al centro di dibattiti anche a livello internazionale. In alcuni Paesi esso si basa solo sulla raccolta della storia personale e familiare del paziente (anamnesi) e sulla visita medica, in altri viene incluso anche un elettrocardiogramma. In Italia, dal 1982, lo screening cardiovascolare per l’idoneità sportiva agonistica comprende per legge l’elettrocardiogramma a riposo e sotto sforzo. Tale approccio è stato a lungo criticato dagli altri Paesi in quanto non basato su studi di costo-efficacia. Tuttavia, dopo la pubblicazione nel 2006 di un lavoro italiano che ha dimostrato come, dopo l’introduzione di tale legge, la morte improvvisa degli atleti in Italia si sia ridotta di oltre l’80% nel corso di 25 anni, anche altri Paesi hanno iniziato ad eseguire l’elettrocardiogramma di base nel corso della visita medico-sportiva. Ma non tutti. La ragione di tale dibattito sta nelle varie caratteristiche dei test.
La raccolta della storia personale e familiare
La raccolta anamnestica (cioè della storia familiare e personale) è importante per evidenziare sintomi sospetti di malattia occorsi nello sportivo o nei suoi familiari. Tuttavia non sempre è in grado di individuare i soggetti a rischio. Diversi studi hanno dimostrato l’alta percentuale di falsi positivi, la bassa sensibilità e il basso valore predittivo positivo della raccolta anamnestica nell’individuare gli atleti a rischio. Ciò è avvallato anche dal fatto che solo la metà dei sintomi o delle anomalie riportate nella storia familiare dagli atleti si rivelano poi davvero importanti per il medico: la storia familiare di morte improvvisa e la presenza di sintomi sotto sforzo sono infatti le anormalità più rilevanti. Inoltre, fino all’80% degli atleti che muoiono improvvisamente o che hanno un arresto cardiaco in campo non hanno sintomi antecedenti.
La visita medica
La visita medica (l’esame obiettivo) può evidenziare segni sospetti di malattia, come talora un soffio al cuore che può richiedere un approfondimento con ecocardiogramma.
L’elettrocardiogramma
L’elettrocardiogramma permette di individuare alterazioni tipiche, ad esempio, di alcune malattie cardiache ereditarie (delle canalopatie o cardiomiopatie) che non sarebbero altrimenti diagnosticate con la semplice visita medica L’elettrocardiogramma, infatti, si è dimostrato avere una maggiore accuratezza diagnostica, con una bassa percentuale di falsi positivi, rispetto alla sola raccolta anamnestica con visita medica. Tuttavia, bisogna essere in grado di refertarlo correttamente, in quanto talvolta presenta delle alterazioni che sono una normale risposta all’attività fisica. Per questo motivo sono anche stati creati dei criteri per l’interpretazione dell’elettrocardiogramma dell’atleta, l’ultimo aggiornamento dei quali è stato pubblicato nel 2017. Quando aggiunto alla raccolta anamnestica e alla visita medica, l’elettrocardiogramma è in grado di aumentare significativamente l’accuratezza dello screening cardiovascolare per l’idoneità sportiva: l’elettrocardiogramma è infatti cinque volte più sensibile della raccolta anamnestica e ben dieci volte più sensibile dell’esame obiettivo nell’individuare gli atleti ad alto rischio di eventi.
Tuttavia anche l’elettrocardiogramma non è in grado di riscontrare alcune condizioni che possono causare la morte cardiaca improvvisa (ad esempio, le anomalie coronariche, le malattie aortiche e le cardiomiopatie nelle loro fasi iniziali) che rappresentano nel loro insieme circa un terzo delle cause di morte improvvisa negli atleti.
La prova da sforzo
L’elettrocardiogramma da sforzo è uno strumento utile per la diagnosi e la stratificazione di numerose malattie, dalla malattia coronarica alle canalopatie. Alcuni Paesi, come l’Italia, lo hanno incluso obbligatoriamente nello screening per l’attività sportiva agonistica. L’elettrocardiogramma da sforzo è in grado di individuare una iniziale sofferenza del cuore (ischemia inducibile) ed è sicuramente l’esame migliore per la diagnosi di alcune malattie cardiache ereditarie. E’ in grado inoltre di indurre delle aritmie che potrebbero essere il primo segno di malattia. Uno studio ha dimostrato che coloro che sviluppano aritmie durante l’elettrocardiogramma da sforzo presentano maggiormente alterazioni della composizione della muscolatura cardiaca alla risonanza magnetica cardiaca, rispetto a coloro che non sviluppano aritmie durante l’elettrocardiogramma da sforzo, che potrebbero essere segno di malattia.
Quando bisogna fare l’ecocardiogramma?
L’ecocardiografia transtoracica è la metodica di immagine di primo livello capace di identificare delle anormalità strutturali, sicuramente molto utile nell’aiutare a differenziare tra il cuore d’atleta e alterazioni strutturali. Va eseguito quando si riscontrano delle alterazioni all’elettrocardiogramma o alla prova da sforzo. Tale metodica è in grado di aumentare la sensibilità dello screening cardiovascolare; tuttavia, richiede molta esperienza e buona qualità delle immagini. Con l’ecocardiografia un operatore esperto è in grado di visualizzare l’origine delle coronarie nel 90-92% degli atleti. L’ecocardiografia è in grado di identificare delle anormalità legate a una potenziale cardiomiopatia altrimenti non riscontrate elettrocardiogramma. L’aggiunta dell’ecocardiografia transtoracica allo screening cardiovascolare sembra aumentare la sensibilità dello screening ma anche i suoi costi, pertanto l’introduzione nello screening cardiovascolare in maniera obbligatoria rimane materia di dibattito.
L’HolterECG delle 24 ore
L’HolterECG delle 24 ore è una indagine clinica che consiste nella registrazione dell’elettrocardiogramma per 24 ore durante le normali attività giornaliere. Esso è in grado quindi di identificare aritmie e altri disturbi del sistema elettrico che potrebbero essere espressione di una sottostante patologia cardiaca e che magari non sarebbero identificabili all’elettrocardiogramma di base, il quale registra solo un minuto del battito cardiaco, né alla prova da sforzo perché magari si presentano solo durante il sonno. Diversi studi hanno dimostrato che molte malattie cardiovascolari potrebbero essere prevenute, diagnosticate e controllate con un HolterECG delle 24 ore. In uno studio che ha valutato i familiari di soggetti morti improvvisamente, la capacità diagnostica dell’HolterECG delle 24 ore si aggira intorno al 9%. Studi iniziali sulla prevalenza delle aritmie negli atleti hanno mostrato che solo una minoranza degli sportivi ha frequenti aritmie all’HolterECG delle 24 ore. Tuttavia, negli ultimi anni è emerso il concetto che non conta il numero di aritmie bensì la loro tipologia (ad esempio se originano dalla parte destra o dalla parte sinistra del cuore). Pertanto, è importante che l’HolterECG delle 24 ore sia con 12 derivazioni (ossia completo) e non con solo 3 derivazioni, perché quello con 12 derivazioni permette di comprendere da dove originano eventuali extrasistoli (battiti fuori posto). È stata infatti riscontrata un’alta prevalenza di malattie cardiache e anormalità nella composizione della muscolatura cardiaca in atleti che hanno aritmie che originano da determinate parti del cuore o che si presentino durante gli sforzi. Per tali ragioni, viene suggerito di effettuare un HolterECG delle 24 ore all’atleta chiedendogli di effettuare anche una sessione di allenamento. L’HolterECG delle 24 ore non è incluso tra gli accertamenti obbligatori dello screening cardiovascolare per l’idoneità sportiva e va effettuato quando ci sono sintomi sospetti o segni sospetti agli accertamenti eseguiti.
Ma quindi è efficace lo screening per l’attività sportiva agonistica?
Uno studio recente ha valutato la capacità diagnostica, la percentuale di atleti ritenuti non idonei e i costi del sistema di screening cardiovascolare italiano in 6000 atleti: 2% sono stati diagnosticati con una patologia, inclusi 0,3% di patologie a rischio di morte cardiaca improvvisa durante sport; 0,3% sono stati sospesi temporaneamente o in maniera permanente dall’attività sportiva; 0,5% sono stati diagnosticati con patologie non cardiovascolari. Se queste percentuali sembrano basse, la domanda che bisogna chiedersi è: quanto vale una vita? Importante è non perdere il focus. Inoltre, non solo il modello italiano si è dimostrato estremamente efficace nel ridurre gli eventi di morte cardiaca improvvisa negli atleti, ma la sua ripetizione annuale aumenta ancora di più tale efficacia. Un recente studio italiano ha infatti dimostrato come la ripetizione ogni anno dello screening cardiovascolare in atleti adolescenti aumenti di tre volte la diagnosi di malattie cardiache a rischio di morte improvvisa rispetto all’esecuzione singola iniziale. Tra le malattie così diagnosticate, la maggior parte sono malattie cardiache ereditarie o alterazioni del tessuto muscolare cardiaco.
Chi effettua lo screening per l’attività sportiva agonistica?
Lo screening cardiovascolare per l’attività sportiva agonistica in Italia viene effettuato dal medico dello sport e consiste in raccolta anamnestica, visita medica, elettrocardiogramma a riposo ed elettrocardiogramma da sforzo. Se il medico sportivo individua delle anomalie, richiede ulteriori accertamenti cardiovascolari (l’ecocardiogramma transtoracico e/o l’HolterECG delle 24 ore e/o accertamenti di terzo livello come la risonanza magnetica cardiaca) che vengono effettuati dal cardiologo, in particolare dal cardiologo dello sport che ha competenze specifiche nella valutazione del cuore d’atleta.
L’arresto cardiaco in campo e il defibrillatore automatico
Anche il più efficace dei protocolli di screening non sarà mai in grado di ridurre a zero gli arresti cardiovascolari in campo. Per tale motivo un altro punto cruciale della prevenzione della morte improvvisa in campo è una pronta rianimazione cardiovascolare con l’utilizzo di un defibrillatore semiautomatico. Un piano di emergenza efficace, l’ottima preparazione del personale medico e non medico e la presenza di un defibrillatore sono i punti essenziali.
Una pronta ed efficace rianimazione cardiopolmonare è cruciale. Questa consiste nella ventilazione, nel massaggio cardiaco ma anche nell’effettuare la defibrillazione, ovvero nel dare la scarica elettrica con un defibrillatore esterno, se appropriato. Il tempestivo intervento di primo soccorso è in grado di salvare fino al 30% in più dei soggetti che hanno un arresto cardiaco. Di vitale importanza in questo senso è la presenza di un defibrillatore. Ciò è stato dimostrato in uno studio condotto su 252 campi sportivi. Tali campi sportivi sono stati studiati dal 1999 al 2014: 207 (82%) hanno acquistato un defibrillatore mentre 45 (18%) no; si sono verificati 26 arresti cardiaci, 15 dei quali in centri provvisti di un defibrillatore automatico: la sopravvivenza con intatte capacità neurologiche è stata del 93% nei centri con defibrillatore e solo del 9% in quelli senza. La presenza di un defibrillatore automatico in campo, la pronta rianimazione cardiovascolare da parte di persone presenti in campo e il tempo tra l’arresto cardiaco e la prima scarica del defibrillatore sono tutti elementi che si sono dimostrati correlati con la sopravvivenza neurologica, tuttavia solo la presenza del defibrillatore automatico si è dimostrata la variabile più forte. Da qui si capisce l’estrema importanza della presenza di un defibrillatore in campo.
Tutti i campi sportivi devono avere un defibrillatore semiautomatico?
In attuazione dell’art. 7, comma 11 del Decreto Balduzzi, il Decreto del Ministero della Salute e di quello per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport del 24 aprile 2013, ha disposto (articolo 5, commi 4 e 5) l’obbligo per le per le società sportive professionistiche e dilettantistiche di dotarsi di defibrillatore automatico esterno entro 6 e 30 mesi rispettivamente dall’entrata in vigore del Decreto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 luglio del 2013. Tali tempistiche, tuttavia, sono state rispettate dalle società sportive professionistiche, mentre quelle dilettantistiche hanno avuto diverse proroghe, terminate il primo luglio del 2017. Ciò perché l’introduzione del defibrillatore automatico esterno in campo implica una serie di obblighi e responsabilità per le società sportive. Infatti, la legge stessa prevede che oltre alla presenza di un defibrillatore automatico esterno vi sia del personale formato al suo utilizzo.
L’obbligo della presenza di un defibrillatore automatico esterno e di personale formato e pronto a intervenire non riguarda le società o associazioni sportive che praticano la loro attività al di fuori di un impianto sportivo. Vengono inoltre escluse anche le società o associazioni che pratichino sport a ridotto impegno cardiovascolare.
Chi è responsabile dell’utilizzo del defibrillatore?
Del personale formato al suo utilizzo. Tuttavia, l’attività di soccorso non rappresenta per il personale formato un obbligo legale, che invece è previsto per il personale sanitario. Ciò significa che se le persone che sono state formate all’utilizzo del defibrillatore sono dei non sanitari, questi hanno il diritto di non intervenire se non si sentono in grado di gestire l’emergenza. Bisogna però tenere presente che più è tempestivo il soccorso, maggiori sono le possibilità di un suo buon esito. Per tale ragione, sarebbe auspicabile che venisse introdotto l’obbligo di formazione al primo soccorso anche per gli allenatori e gli sportivi: sono i compagni di squadra o i giocatori della squadra avversaria quelli più vicini all’atleta quando ha un arresto cardiaco.
Si può migliorare?
L’obbligo della presenza di un defibrillatore automatico esterno e di personale formato e pronto a intervenire non riguarda le società o associazioni sportive che praticano la loro attività al di fuori di un impianto sportivo. Vengono inoltre escluse anche le società o associazioni che pratichino sport a ridotto impegno cardiovascolare. In queste due eccezioni vi sono forse i punti più critici:
- allenamenti una gara all’esterno deve seguire le regole di sicurezza previste per la stessa e previste dai regolamenti sportivi; se si guarda a quali siano le attività a basso impegno cardiovascolare, si noterà che si tratta di attività sportive praticate soprattutto da persone meno giovani (ad esempio, biliardo, golf, bowling, bocce). Eppure, l’età è tra i fattori di rischio cardiovascolare più importanti. Non è solo la tipologia di sport che conta. Inoltre, uno studio recente ha dimostrato che la malattia coronarica, che generalmente colpisce le persone di età più avanzata, è presente in percentuale maggiore tra gli atleti rispetto ai non atleti e in maniera più grave.
- Altro punto estremamente importante, è che la legge fa riferimento solo alle gare e non agli allenamenti.
Molti progressi sono stati fatti nella prevenzione della morte cardiaca tra gli atleti, soprattutto in Italia. Tuttavia, molto resta ancora da fare anche nel nostro Paese.